Oltre i simulacri, la bellezza

Viviamo nell’epoca dei simulacri, ci diceva il filosofo francese Jean Baudrillard. Tempi strani, i nostri, e duri, che obbligano ogni giorno al confronto con una realtà che cambia e non riesce a darci punti di riferimento stabili. Simulacri, appunto: immagini fittizie che sembrano rimandare a nient’altro se non a se stesse. Ma se davvero stanno così le cose, ha senso parlare ancora di alta moda, oggetto che per sua natura muta pelle a ogni cambio di stagione?

Eppure, permangono ostinati scampoli che ci legano al reale, fantasie che diventano presenze materiali. E cos’è l’haute couture se non sogno fatto stoffa, sogno divenuto realtà concreta? Franz Krauler vuole quindi intraprendere un viaggio lento, meditativo, che permetta di disconnettersi per un attimo dal vortice frenetico e impazzito della vita moderna. Procedere con calma, con un’intimità discreta che ci consenta di ricoprire quella bellezza tangibile che giace sotto il brusio e i falsi miti dell’oggi.


Con questo spirito dalle alture dolomitiche dovremo scendere a valle, fino alla laguna veneta. Venezia, città di miti e di riti, di cinema e di arte, di fascino e mistero. Venezia, città già scelta come casa da Mariano Fortuny e dove la moda oggi torna protagonista. È ai calli veneziani e alle gondole che deve aver pensato Pier Paolo Piccioli mentre creava l’ultima collezione di haute couture per Valentino, presentata nell’Arsenale veneziano. Des Ateliers, il titolo di una collezione che è il risultato della mescidanza di saperi che arrivano da atelier diversi, fusi nella mente di Piccioli per un risultato sorprendente. Il fashion designer romano, da quattordici anni alla direzione artistica di Valentino, sembra non aver intenzione di frenare la sua creatività. Con la laguna veneta come sfondo, l’ultima creazione di alta moda nasce dall’incontro con diciassette artisti, le cui opere sono servite da ispirazione per gli abiti. Colore, struttura, sapienza, ma, soprattutto, la capacità di Piccioli di saper dare vita a qualcosa di unico e irripetibile. Capi d’abbigliamento esclusivi, che eludono le leggi della società contemporanea, dove tutto sembra replicabile. E allora, se davvero dovessimo trovare un valore nel lavoro di Pier Paolo Piccioli, forse sarebbe la lentezza, la capacità di astrarsi dalla corsa al successo per meditare, collezione dopo collezione, sul proprio lavoro e sulla sua più intima creatività.


Non sempre però è possibile prendersi del tempo. Internet e i nuovi media ci hanno abituato a ritmi frenetici, che permeano anche il lavoro dei creativi e spesso obbligano a cambiamenti repentini, a subitanee inversioni di rotta. La sfida allora è riuscire a fare di questi fattori degli alleati e in questo sembra esserci riuscito Kim Jones. Prima Louis Vuitton, poi Dior Homme, adesso Fendi, per un creativo che ha saputo permeare con la sua impronta personale ogni brand per il quale ha lavorato. Raccogliendo la pesante eredità di Karl Lagerfeld, Jones sa di dover usare tutta la sua capacità di adattamento per coniugare lo spirito street che gli è proprio con lo stile iconico della maison romana, che ha ormai quasi un secolo di storia. Intanto, sono i marmi delle architetture anni Trenta e le piazze affogate di sole di De Chirico al centro della sua seconda collezione femminile di haute couture, presentata a inizio luglio. Jones pare oggi essere in grado di coniugare l’antico col contemporaneo, il passato con il presente, per guardare al futuro. E se oggi tutti i modelli culturali forti sembrano essere caduti, se la filosofia postmoderna ci ha spiegato che del passato non rimangono altro che macerie, è proprio lì che Jones sembra tornare: alla tradizione, alle radici, affinché siano non presenze ingombranti da guardare con timore, ma basi di partenza per inventare il nuovo con garbo ed eleganza. Riallacciare i fili con ciò che sta alle spalle, tracciare rotte per i giorni futuri, ridare consistenza a ciò che sembra perso nelle pieghe del tempo. È questo, quindi, il lavoro di Kim Jones da Fendi.


Ma quale antidoto alla seriosità di una società che segue il mantra della ripetizione seriale e sembra schiacciare chi non si adegua agli standard? Forse il riso, il gioco, che scardina le maglie del sistema con disarmante semplicità. «Una risata vi seppellirà», gridavano i giovani sessantottini. Ma quella rivoluzione che non è riuscita fino in fondo ai contestatori nel 1968, sembra essere riuscita, almeno nel campo della moda, a Demna Gvasalia. Dopo aver lavorato per Martin Margiela e Louis Vuitton, il fashion designer georgiano deve il suo successo internazionale a Vetements, brand che gli ha permesso di sovvertire con ironia i canoni e le regole del fashion system. Nonostante il suo trascorso da rule breaker, Gvasalia, dal 2015 alla direzione di Balenciaga, ha però dimostrato di sapere riprendere il discorso interrotto dal fondatore della maison più di cinquant’anni fa. La collezione di haute couture disegnata da Gvasalia – la prima, da quando monsieur Cristóbal si ritirò, nel 1968 – è la prova di come si possa far rivivere l’heritage di un brand e proiettarlo nel futuro. Rispetto del passato, quindi, ma nessuna paura di smontarlo con le armi della citazione e del gioco, per degli abiti in cui forte è il dialogo tra couture e streetwear. L’intelligenza è l’arma principale di Gvasalia, che riesce a porre un argine alle natura effimera delle cose attraverso abiti ricchi di poesia e un pizzico di ironia.


Essere qui, quindi, e ora, con il proprio carico di esperienze e con il coraggio di portare avanti le proprie idee. Questo sembra essere il messaggio che ci arriva dai tre fashion designer. Ognuno con la sua poetica, ma tutti consci della necessità di fare un passo indietro per astrarsi dal caos informe che ci circonda e riscoprire la bellezza là dove essa perdura. Franz Kraler è pronto a fare questo passo con voi. Dare forma ai sogni con abiti che ci accarezzino con le loro stoffe e che ci facciano sentire padroni delle nostre vite.